Mentre in Italia continuiamo a provarci (Confindustria chiede più coraggio al Governo su Industria 4.0, si arresta nell’ultimo trimestre la nascita di imprese al Sud, si aprono nuove occasioni professionali per figure che vanno rapidamente formate, si preparano nuovi investimenti per le Pmi,…) sul cruscotto dell’economia europea si è acceso una spia rossa. E’ quella del “motore d’Europa”, la Germania, che mostra vari segnali di crisi.
A partire dall’inizio dell’anno, e ancora nel mese di luglio, gli umori delle imprese tedesche peggiorano e l’indice di fiducia, lo Zew (che si elabora sulla base delle risposte di 350 protagonisti dell’economia), continua a peggiorare. Un mese fa Dieter Kempf, capo della Bdi (la lobby industriale più potente), ha lanciato l’accusa al governo di non aver messo il paese in condizioni di affrontare la sfida digitale (“solo un miliardo per l’intelligenza artificiale” ) e di non aver effettuato gli investimenti necessari per ammodernare le infrastrutture. Angela Merkel gli ha subito replicato che la responsabilità è degli industriali dell’auto che hanno tradito la fiducia dei tedeschi con il dieselgate.
In effetti l’industria dell’auto tedesca stenta a recuperare la leadership perduta ma soffrono anche i colossi della chimica (come Basf) e quelli del software come Sap. C’è un segnale importante, poi, che non ha bisogno di commenti: la Deutsche Bank si è ritirata dalla City londinese e dal mercato americano (oggi la banca vale in Borsa un terzo dell’italiana Banca Intesa Sanpaolo che non è globalizzata).
Di sicuro il modello tedesco è ancora solido e può contare sul suo sistema diffuso e forte di medie imprese, ma anche la Germania deve fare i conti con la contemporaneità se non vuole perdere i pilastri sui quali si fonda la sua primazia: il Mittelstand (il sistema delle imprese), la coesione sociale e il solido welfare. Secondo Marcel Fratzscher, direttore del think tank Diw e docente all’università Humboldt di Berlino, questo patrimonio è oggi a rischio per due pericolose illusioni politiche. “Primo – scrive Fratzscher sul Financial Times –l’assurda convinzione che non debba essere la Germania a cambiare, bensì gli altri paesi europei che avrebbero bisogno di imitare il suo esempio virtuoso”. Questa idea, infatti, ha impedito di allargare i benefici del boom portando ad un surplus della bilancia commerciale, con vari effetti negativi: l’espansione degli investimenti esteri a scapito di quelli sul mercato interno, salvo i lavori meno tutelati, causa di profondo disagio. “Secondo –continua il professore –l’illusione che la Germania non abbia bisogno dell’Europa e che l’Unione europea dipenda al contrario dalla nostra benevolenza”. C’è da dire, forse, come disse quella volta Carmelo Bene a Paolini: “non è il teatro che ha bisogno di voi; siete voi che avete bisogno del teatro”.
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