Rassegna stampa del 28 ottobre 2019

Cosa manca al sistema produttivo italiano  per attrarre innovazione e finanziamenti, per creare nuova tecnologia e per tradurre questi processi in benessere socio-economico diffuso?

Secondo Carlo Ferro -Presidente Ice-Agenzia, Adjunct professor of strategies for emerging technologies Università Cattolica del Sacro Cuore-  ci sono 4 risposte: 1. non mancano i capitali ma un venture capital che sappia rischiare capitali; 2. non è diffusa la capacità finanziaria delle università di investire nell’industrializzazione dei risultati della ricerca; 3. manca la scala: sia gli incubatori che la ricerca non fanno sistema e così sono  frammentate in identità accademiche o regionali; 4. la cultura e le norme lasciano le stigmate del “fallimento” sull’imprenditore che ha tentato senza successo una nuova avventura.

Ferrero, però, riconoscere che in Italia ci sono vari fattori abilitanti il successo: la qualità dei ricercatori e degli scienziati italiani, che si fanno valere in patria come all’estero; l’ecosistema di grandi e medie imprese che fertilizza le filiere nella seconda economia manifatturiera d’Europa; l’imprenditorialità di un Paese di 4 milioni di Pmi; una struttura di costo dove un ingegnere o un programmatore software costa fra un terzo e un quarto dell’equivalente americano e dove, da qualche anno, norme fiscali incentivano gli investimenti in startup. Sono proprio questi fattori che, secondo Ferrero, potrebbero favorire il nostro Paese nello sviluppo dell’economia digitale ed dell’economia circolare.

Che sia il momento buono anche per l’Italia?

 

Di seguito gli articoli scaricabili:

Un’alleanza per il clima

una fabbrica di 6 metri quadrati

CtiFoodTech investe a Salerno

Abbiamo talenti ed eccellenze Ora nuovo marketing per il Paese

Il tesoro nascosto della manifattura

Innovare, la sfida delle imprese

Il nuovo welfare cresce nei contratti aziendali

Le start up spingono la rinascita dell’Etna Valley

Le novità per imprese e lavoro

Napoli va al rilancio sull’innovazione

Partecipazione, primo test a Milano

Start up, incubatori e Pmi

SEMPRE PIÙ DIGITALE E CIRCOLARE COSÌ SARÀ L’ECONOMIA DEL FUTURO

Patto in 10 punti per la ricerca Confidustria_ pronti a collaborare

Un miliardo a favore di chi investe nelle Zes della Sicilia

Sviluppo, 166 milioni per le pmi campane

Rassegna stampa del 21 ottobre 2019

Settimana del 14-20 ottobre 2019

 

Secondo i dati proposti dalla Fondazione Symbola l’Italia sarebbe tra le prime economie verdi del mondo, con performance eccellenti in tutte le quattro principali problematiche: emissioni atmosferiche, utilizzo di materie prime, consumi energetici e produzione di rifiuti.

E pare che ci siano buoni venti per le imprese italiane: “dall’abbigliamento all’arredo, dalla meccanica all’alimentare, il grande valore immateriale dei nostri prodotti può essere arricchito con la componente del loro migliore impatto ambientale; si troverà così perfettamente allineato con la sensibilità e gli orientamenti che sempre più prevarranno nei consumatori in tutto il mondo”.

Vuoi vedere che se uniamo qualche puntino, senza fare rivoluzioni (di cui per altro non siamo capaci), arrivano risultati interessanti per tutti? Da un’altra ricerca, infatti, emergono ulteriori informazioni utili a immaginare buone occasione di miglioramento e sviluppo. Si tratta di un Rapporto redatto dalla Fondazione per la sussidiarietà ha dal titolo «Sussidiarietà e …Pmi per lo sviluppo sostenibile». Da questa ricerca emerge che nelle piccole e medie imprese c’è uno stretto legame con il territorio, con un ruolo determinate nei processi che portano lo stesso a diventare “sistema territoriale” competitivo anche attraverso l’apertura internazionale. C’è la caratteristica profonda del senso del lavoro e del rischio di impresa; c’è l’apporto ai processi innovativi e formativi, soprattutto delle start up; la capacità di collaborare a fare rete; l’implicazione in dinamiche sociali; il contributo offerto alla democrazia (non solo economica). Sono tutti segni del Dna delle Pmi, naturalmente rivolto alla sostenibilità. Il termine sostenibilità contiene un’ampia varietà di temi che riguardano ambiti economici, sociali, istituzionali, ambientali.

Non ultimo, Confindustria si è dotata di un decalogo sulla responsabilità sociale d’impresa che, come ha scritto Vincenzo Boccia (il Presidente di Confindustria): diventa l’essenza stessa del fare impresa: che o è responsabile e sostenibile o semplicemente non è.  

La cosa interessante è che non solo si rilancia il tema dell’ambiente ma si ri-focalizza l’attenzione anche sul tema del lavoro quindi sulle persone. Confindustria ha anche firmato (“con convinzione” dice il Presidente) il “Manifesto per Un’economia a misura d’uomo contro la crisi climatica” lanciato da Symbola, che –come ha scritto Boccia – “si muove in coerenza con l’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco, rilanciata da padre Enzo Fortunato in un percorso che parte da e arriva ad Assisi”.

 

Di seguito gli articoli scaricabili:

Ma non è che alla fine siamo meglio di quello che pensiamo di essere?

Cultura_e_creatività_L’impresa_che_cresce

Impresa_4.0,_credito_di_imposta_fino_al_40%

L’economia_degli_agrumi_locali,_Savona_scommette_sul_chinotto

L’Italia_ce_la_può_fare_alla_grande_Nel_turismo_dobbiamo_essere_primi

Lavoro__le_misure

PIÙ_CRESCITA_CON_MISURE_AD_HOC_DESTINATE_ALL’ECONOMIA_CIRCOLARE

Plastic_tax,_si_parte_da_1_miliardo

Resto_al_Sud._E_in_Centro_Italia

Sgravi_e_investimenti_il_tesoro_per_il_Sud

 Sud,_bonus_ricerca_e_4.0_più_alti

 Sui_sensori_la_fabbrica_corre_in_millisecondi

 Turismo_e_alimentare_ricetta_per_lo_sviluppo

 

 

Rassegna Stampa 16 luglio 2019

Notizie della settimana 8 – 14 luglio 19

Non è un segreto dai, lo sanno tutti… l’indice DESI (digitalizzazione dell’economia e della società) ci ha smascherato facendo vedere, appunto, a tutti, che l’Italia non brilla in competenze digitali. Siamo scesi, infatti, al 26° posto, al di sotto della media UE: solo il 44% delle persone tra i 16 e i 74 anni possiede competenze digitali di base, contro il 57% nell’UE.

Essere tra gli ultimi della classe più che un’onta, è la rappresentazione di un problema concreto: in Italia, tra il 2019 e il 2021, le sole imprese del settore Ict avranno bisogno di quasi 45 mila tecnici ed è difficile che il mercato riesca a soddisfare questa esigenza.

L’Osservatorio delle Competenze Digitali (Anitec-Assinform, Aica, Assintel e Assinter Italia) calcola che i lavoratori più ricercati (e meno trovati dalle aziende) saranno sviluppatori (49,1%), consulenti Ict (16,3%), analisti di sistema (7,5%) e specialisti in media digitali (6,1%). Seguiti da specialisti di big data, machine learning, cybersecurity e intelligenza artificiale.

E dire che il World Economic Forum l’aveva detto: serviranno nuove professioni e ci saranno nuovi lavori, a fronte della perdita di altri che non saranno più necessari. E adesso? Serve una rincorsa, tutti insieme, come quando si parte correndo dalla spiaggia per tuffarsi in mare.

E bisognerà continuare a ripetere due mantra: quello dello sviluppo delle soft skill (necessarie perché le persone siano prima di tutto in grado di adattarsi al cambiamento e alla complessità) e l’altro, che non va dimenticato, che recita della necessità di creare un cittadino digitale.

Ricordiamoci, infatti, che prima di essere lavoratori siamo persone e animali sociali e che dobbiamo attrezzarci ad affrontare quella che, non a caso, viene definita, Rivoluzione!

Di seguito gli articoli scaricabili:

Rassegna stampa del 17 giugno

Notizie della settimana 10 – 16 giugno

Udite!Udite! Sace-Simest, il polo dell’export e dell’internazionalizzazione del gruppo Cassa depositi e prestiti, ha messo a punto una nuova squadra con oltre 50 account commerciali dislocati in 14 uffici su tutto il territorio nazionale, un set di nuovi prodotti completamente on-line, e, da ultimo, un team di 12 gestori che, alle competenze di export coaching, affiancano un portafoglio di offerta digitale interamente dedicata al segmento delle Pmi. E la finalità è quella di sostenere le piccole e medie imprese che fanno rotta sull’estero.

Pare molto interessante la figura dell’export-coach che ha il compito di intercettare le imprese più piccole, con un approccio incentrato su ascolto e supporto, per aiutarle a esportare di più e meglio, sfruttando tutte le soluzioni messe a punto dal sistema messo in campo da Cassa. Una sorta di “cinghia di collegamento”, quindi, con competenze molto specifiche tra la platea di clienti e il portafoglio di prodotti del Polo.

L’identikit dell’export-coach: una persona di circa trent’anni, che ha spiccate attitudini digitali e commerciali, che si muove su tutto il territorio nazionale, con particolare attenzione però al Mezzogiorno dove la maggior parte di loro fa base.

L’iniziativa di Sace-Simest nasce dalla conoscenza del territorio e dalla constatazione che esiste un duplice scoglio per le imprese più piccole: circa 80mila Pmi esportano poco e nulla mentre potrebbero fare molto di più oltreconfine; l’altro è collegato alla difficoltà di molte imprese di avere accesso ai prodotti del Polo per coprire i rischi e affrontare la sfida dell’estero a costi convenienti. L’obiettivo è arrivare a servire oltre 3500 nuove Pmi entro il 2021: per questo motivo, gli export-coach lavoreranno molto sul campo incontrando gli imprenditori direttamente in azienda per ascoltare le loro esigenze e indirizzarli nella scelta dei prodotti e dei servizi assicurativo-finanziari più adatti a sostenere i loro piani di penetrazione commerciale di nuovi mercati e i processi di internazionalizzazione volti a catturare nuove commesse.

Il modello adottato da CdP è veramente simile al nostro PidMed: che sia arrivato il momento di far scalare il nostro modello mediterraneo di sviluppo?

Di seguito gli articoli scaricabili:

Rassegna Stampa 3 giugno 2019

Notizie della settimana 27 – 2 giugno 2019

Cosa fa la differenza per il successo di un’impresa? Anzitutto la gestione delle competenze per ottenere un miglioramento qualitativo dei prodotti e dei servizi, poi una buona governance e la propensione all’internazionalizzazione.

Questi sono i tre aspetti-chiavi che Deloitte riconosce e premia con il “Best managed company”, dove spiccano aziende manifatturiere ma anche rappresentanti del mondo della comunicazione, della consulenza, del commercio all’ingrosso e al dettaglio, fino alla logistica e alla ristorazione.

Per lo sviluppo e la gestione delle competenze i consigli sono questi: intensificare il raccordo tra il mondo dell’istruzione e quello delle imprese (dall’alternanza scuola-lavoro alle academy) con la collaborazione degli atenei; una maggiore cooperazione tra le imprese soprattutto per poter partecipare a progetti di ricerca; preparare le transizioni generazionali in anticipo per renderle “morbide”, testando le attitudini della futura classe dirigente con un coaching interno alle aziende; condividere di più la rotta cioè la direzione di sviluppo strategica dell’impresa per condividere meglio gli eventuali problemi da affrontare.

In settimana, poi, è stata presentata la “Carta” delle imprese per uno sviluppo sostenibile dove si chiede al governo di accelerare la transizione dell’Italia alla sostenibilità anche con l’avvio di un tavolo di lavoro su questo tema presso la presidenza del Consiglio

Per puntare di più sulla sostenibilità sono state messe in campo risorse ingenti. Con il Piano Industriale 2021 Cdp ha scelto di orientare il proprio approccio strategico e operativo ai principi dello sviluppo sostenibile. Cdp ha da poco annunciato un budget finanziario da 200 miliardi per i prossimi tre anni proprio per questi obiettivi.

Pare che ci stiamo affezionando all’idea che lo sviluppo sia sostenibile. Riusciranno le imprese a trovare un vantaggio reale nell’applicazione di questo nuovo paradigma?

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Rassegna Stampa 20 maggio 2019

Notizie della settimana 13 – 19 maggio

Good news:  sono molto buoni i risultati che emergono dal Monitoraggio Nazionale 2019 sul Sistema degli Its, istituti tecnici superiori post scuola superiore. Le imprese assumono quasi l’80% degli studenti di questi Istituti entro un anno dal diploma, offrendo loro un posto di lavoro coerente con il percorso di studi. Piacciono sempre di più ai liceali, che rappresentano il 21,3% degli iscritti, in crescita così come i laureati (6,1%). Merito soprattutto della qualità della formazione e dell’organizzazione con il 42% delle ore totali del percorso realizzato in impresa, il 27% di teoria in laboratori di aziende o di ricerca e il 70% di docenti provenienti dal mondo del lavoro. E’ interessante il fatto che le aziende hanno un ruolo attivo e di primo piano nella didattica degli Its: quasi la metà delle ore totali del percorso è realizzato in impresa, superando la soglia minima obbligatoria (30%) per tutte le aree tecnologiche e coinvolgendo negli stage 2.467 aziende.

Ma non è tutto oro quello che luccica: agli Stati Generali dell’Education organizzati a Torino da Confindustria, si sono messi in evidenza i ritardi e il gap italiano rispetto ai principali paesi europei, a cominciare proprio da quanto il paese investe nel sistema scuola: il 3,4% del Pil, in calo rispetto al passato e meno di quanto invece Francia o Germania assicurano all’educazione. La prima sfida, secondo Confindustria, è di aumentare, almeno di un punto, la percentuale di Prodotto interno lordo destinata all’education: “20 miliardi in più in 5 anni che potrebbero essere destinati a più orientamento, più formazione sul lavoro, laboratori, e soprattutto più Its per far crescere la formazione terziaria professionalizzante di cui il Paese ha urgente bisogno“.

Più education, dunque, per accompagnare i processi di cambiamento in corso e speriamo che ci si ricordi di inserire, insieme alle materie tecniche, anche le scienze dell’uomo necessarie alla crescita di persone che siano in grado di affrontare i cambiamenti generati dalla Rivoluzione 4.0.

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