Rassegna Stampa 4 novembre 2019

Houston abbiamo un problema… e si chiama lavoro!

Secondo uno studio di Unioncamere nei prossimi cinque anni ci saranno almeno 3 milioni di assunzione ma l’80% dei nuovi occupati (2,6 milioni) andranno a sostituire tutti coloro che si avviano alla pensione mentre pare che sarà minima il lavoro legato alla creazione di nuove aziende o all’espansione di quelle esistenti. Da oggi al 2023 si è calcolato che saranno 534mila posti in totale cioè circa 292 al giorno. Interessante il confronto con chi marcia a una velocità superiore per far capire che sono numeri preoccupanti: Amazon tra luglio e settembre scorsi ha assunto ogni 24 ore 1.111 persone.

I profili professionali più richiesti — trasversalmente a tutti i settori — saranno quelli legati alla transizione digitale e alla green-economy, che genereranno nei prossimi cinque anni quasi 800mila offerte.

Il problema del lavoro in Italia deve tornare al centro degli interessi e del dibattito per la politica, l’industria, i Governi, le associazioni di rappresentanza e anche per i cittadini.

Non è solo una necessità per far fronte ai grandi cambiamenti in corso ma è una scelta sociale di attenzione per le persone.

Di seguito gli articoli scaricabili:

Bi-Rex di Bologna_Bari primi ingegneri per competence center

Confindustria, tavoli anti crisi con gli investitori stranieri

Cosa cambia con la Manovra

Da Resto al Sud a Cresci al Sud

I nuovi lavori

Il cortocircuito delle tasse ambientali

Il governo_ a Impresa 4.0

Industria, il «male tedesco» La liquidità resta ferma

Manca una politica industriale Senza effetti le misure per il lavoro

Nel nuovo budget di Bruxelles 1.200 miliardi per le piccole imprese

Ora le Zes diventano strategiche

Piacenza, dove cade il confine tra logistica e manifattura

Pmi italiane in Cina sulla spinta delle Zes

Progetto Tim per spiegare internet a 1 milione di italiani

Sfida digitale dell’Europa per competere con Asia e Usa

Smart working, mancano all’appello Pmi e Pa

Rassegna stampa del 28 ottobre 2019

Cosa manca al sistema produttivo italiano  per attrarre innovazione e finanziamenti, per creare nuova tecnologia e per tradurre questi processi in benessere socio-economico diffuso?

Secondo Carlo Ferro -Presidente Ice-Agenzia, Adjunct professor of strategies for emerging technologies Università Cattolica del Sacro Cuore-  ci sono 4 risposte: 1. non mancano i capitali ma un venture capital che sappia rischiare capitali; 2. non è diffusa la capacità finanziaria delle università di investire nell’industrializzazione dei risultati della ricerca; 3. manca la scala: sia gli incubatori che la ricerca non fanno sistema e così sono  frammentate in identità accademiche o regionali; 4. la cultura e le norme lasciano le stigmate del “fallimento” sull’imprenditore che ha tentato senza successo una nuova avventura.

Ferrero, però, riconoscere che in Italia ci sono vari fattori abilitanti il successo: la qualità dei ricercatori e degli scienziati italiani, che si fanno valere in patria come all’estero; l’ecosistema di grandi e medie imprese che fertilizza le filiere nella seconda economia manifatturiera d’Europa; l’imprenditorialità di un Paese di 4 milioni di Pmi; una struttura di costo dove un ingegnere o un programmatore software costa fra un terzo e un quarto dell’equivalente americano e dove, da qualche anno, norme fiscali incentivano gli investimenti in startup. Sono proprio questi fattori che, secondo Ferrero, potrebbero favorire il nostro Paese nello sviluppo dell’economia digitale ed dell’economia circolare.

Che sia il momento buono anche per l’Italia?

 

Di seguito gli articoli scaricabili:

Un’alleanza per il clima

una fabbrica di 6 metri quadrati

CtiFoodTech investe a Salerno

Abbiamo talenti ed eccellenze Ora nuovo marketing per il Paese

Il tesoro nascosto della manifattura

Innovare, la sfida delle imprese

Il nuovo welfare cresce nei contratti aziendali

Le start up spingono la rinascita dell’Etna Valley

Le novità per imprese e lavoro

Napoli va al rilancio sull’innovazione

Partecipazione, primo test a Milano

Start up, incubatori e Pmi

SEMPRE PIÙ DIGITALE E CIRCOLARE COSÌ SARÀ L’ECONOMIA DEL FUTURO

Patto in 10 punti per la ricerca Confidustria_ pronti a collaborare

Un miliardo a favore di chi investe nelle Zes della Sicilia

Sviluppo, 166 milioni per le pmi campane

Rassegna stampa del 21 ottobre 2019

Settimana del 14-20 ottobre 2019

 

Secondo i dati proposti dalla Fondazione Symbola l’Italia sarebbe tra le prime economie verdi del mondo, con performance eccellenti in tutte le quattro principali problematiche: emissioni atmosferiche, utilizzo di materie prime, consumi energetici e produzione di rifiuti.

E pare che ci siano buoni venti per le imprese italiane: “dall’abbigliamento all’arredo, dalla meccanica all’alimentare, il grande valore immateriale dei nostri prodotti può essere arricchito con la componente del loro migliore impatto ambientale; si troverà così perfettamente allineato con la sensibilità e gli orientamenti che sempre più prevarranno nei consumatori in tutto il mondo”.

Vuoi vedere che se uniamo qualche puntino, senza fare rivoluzioni (di cui per altro non siamo capaci), arrivano risultati interessanti per tutti? Da un’altra ricerca, infatti, emergono ulteriori informazioni utili a immaginare buone occasione di miglioramento e sviluppo. Si tratta di un Rapporto redatto dalla Fondazione per la sussidiarietà ha dal titolo «Sussidiarietà e …Pmi per lo sviluppo sostenibile». Da questa ricerca emerge che nelle piccole e medie imprese c’è uno stretto legame con il territorio, con un ruolo determinate nei processi che portano lo stesso a diventare “sistema territoriale” competitivo anche attraverso l’apertura internazionale. C’è la caratteristica profonda del senso del lavoro e del rischio di impresa; c’è l’apporto ai processi innovativi e formativi, soprattutto delle start up; la capacità di collaborare a fare rete; l’implicazione in dinamiche sociali; il contributo offerto alla democrazia (non solo economica). Sono tutti segni del Dna delle Pmi, naturalmente rivolto alla sostenibilità. Il termine sostenibilità contiene un’ampia varietà di temi che riguardano ambiti economici, sociali, istituzionali, ambientali.

Non ultimo, Confindustria si è dotata di un decalogo sulla responsabilità sociale d’impresa che, come ha scritto Vincenzo Boccia (il Presidente di Confindustria): diventa l’essenza stessa del fare impresa: che o è responsabile e sostenibile o semplicemente non è.  

La cosa interessante è che non solo si rilancia il tema dell’ambiente ma si ri-focalizza l’attenzione anche sul tema del lavoro quindi sulle persone. Confindustria ha anche firmato (“con convinzione” dice il Presidente) il “Manifesto per Un’economia a misura d’uomo contro la crisi climatica” lanciato da Symbola, che –come ha scritto Boccia – “si muove in coerenza con l’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco, rilanciata da padre Enzo Fortunato in un percorso che parte da e arriva ad Assisi”.

 

Di seguito gli articoli scaricabili:

Ma non è che alla fine siamo meglio di quello che pensiamo di essere?

Cultura_e_creatività_L’impresa_che_cresce

Impresa_4.0,_credito_di_imposta_fino_al_40%

L’economia_degli_agrumi_locali,_Savona_scommette_sul_chinotto

L’Italia_ce_la_può_fare_alla_grande_Nel_turismo_dobbiamo_essere_primi

Lavoro__le_misure

PIÙ_CRESCITA_CON_MISURE_AD_HOC_DESTINATE_ALL’ECONOMIA_CIRCOLARE

Plastic_tax,_si_parte_da_1_miliardo

Resto_al_Sud._E_in_Centro_Italia

Sgravi_e_investimenti_il_tesoro_per_il_Sud

 Sud,_bonus_ricerca_e_4.0_più_alti

 Sui_sensori_la_fabbrica_corre_in_millisecondi

 Turismo_e_alimentare_ricetta_per_lo_sviluppo

 

 

Rassegna Stampa 14 ottobre 2019

L’Italia è forte nelle 3F: Food, Fashion, Furniture. Dal 2017, secondo i dati di una ricerca realizzata da Symbola, l’Italia ha superato gli altri Paesi della Comunità Europea per numero di imprese di design e, secondo la ricerca, le imprese manifatturiere che hanno investito nel design hanno assunto di più, hanno incrementato il fatturato e hanno esportato di più. Inoltre, a quanto pare, le imprese che investono in tecnologie green, puntando sul design, dichiarano un aumento di occupazione, fatturato ed esportazioni maggiore rispetto a quelle che non sono green oriented.

Sul fronte invece dell’innovazione tecnologica ci sono ancora difficoltà legate soprattutto agli investimenti che le imprese devono sostenere e, in particolare, al gap di competenze. Questo emerge da un’altra ricerca «Cio Survey 2019», realizzata da Netconsulting Cube su oltre 70 responsabili Ict delle imprese italiane. Tra gli elementi che emergono si evidenzia come la digitalizzazione stia diventando sempre più pervasiva, coinvolgendo non solo i responsabili tecnologici ma anche le figure apicali.  Le imprese che stanno investendo in tecnologia si stanno orientando soprattutto sull’«advanced analytics», con particolare riferimento a machine learning e ai «data lake» propedeutici alla valorizzazione dei dati aziendali. Poi si investe su cloud computing, cybersecurity e digital customer experience. La questione aperta rimangono le figure professionali da inserire in azienda. Mancano data scientist, architetti It ed esperti di sicurezza e, secondo la ricerca, mancherebbero fra le 30 mila e le 50 mila unità.

Ma, secondo i Direttori delle imprese intervistate, la prima difficoltà è la gestione del change management, la presenza di altre priorità aziendali e lo scarso budget.

Questi ostacoli, in realtà riguardano siano le imprese più grandi (come dice la ricerca) sia le imprese più piccole (come ci sta dimostrando il lavoro sul campo fatto con PIDMED) A questo punto qualcuno ha idee da condividere per andare avanti con la rivoluzione 4.0?

Di seguito gli articoli scaricabili:

Aree di crisi, agevolazioni anche per reti d’imprese

Con robot e esoscheletri più sicurezza in fabbrica

L’economia elegante Quanto pesa il design

L’impresa ora scopre un’anima digitale

Rassegna Stampa 7 ottobre 2019

Ci sono fronti di cambiamento, molto complessi da affrontare, che segnano una via verso un possibile futuro delle imprese. Il primo è quello green: rigenerare, infatti, non solo fa bene all’ambiente ma è anche un motore di sviluppo economico e occupazionale. Per ogni addetto operante nelle attività di riciclo vengono creati 12 posti di lavoro lungo l’intera filiera. Certo, per fare impresa con l’ambiente, le aziende devono investire in ricerca e in innovazioni, altrimenti il rischio è di perdere il mercato.

L’altro fronte di cambiamento, anche questo non banale, è orientare la cultura delle imprese alla condivisione delle informazioni e dei dati. Questo soprattutto nell’era del machine learning che, come sostiene Bruce Kramer (studioso della manifattura, dal Mit alla National Science Foundation Usa) sarebbe una grande occasione per le aziende stesse in termini di conoscenza e creazione delle strategie: «Non basta mettere sensori dappertutto e attendere che l’intelligenza artificiale ci dica che cos’è importante. Conta sapere che cosa si fa con i dati». Perché, dice “Un’idea importante tra mille pazze potrebbe cambiare il mondo”. E a questo proposito l’idea di Kramer potrebbe essere di avere una sorta di Google per i servizi manifatturieri. «Nella manifattura di solito i problemi sono già stati affrontati tutti da qualcun altro. Penso a una piattaforma di ricerca, di servizi per la manifattura, dove chi ha un progetto possa cercare chi produce già le componenti o metodi per realizzarlo – un modo molto economico di produrre». «Non abbiamo ancora provato a trasformare i servizi per la manifattura in un vero mercato». È un’idea per una startup… «Sì. Qualcuno ci sta già lavorando».

Insomma, con un’inversione di 180° verso la sostenibilità ambientale e la condivisione di dati, idee e soluzioni, green e condivisione possono diventare i nuovi mantra degli imprenditori che guardano il presente con lo sguardo dritto e aperto nel futuro.

Di seguito i link scaricabili:

Bonus formazione 4.0

Competenze e nuove tecnologie

Ecco il piano per il Mezzogiorno

La formazione 4.0 potenziata

Nuovo veicolo da 600 milioni targato Fondo italiano

Sorpresa_ i robot non ci rubano tutto il lavoro

Startup innovative al restyling

Un piano per far grandi le start up del sud Italia

Una Google per la manifattura globale

Rassegna Stampa 5 agosto 2019

La parola della settimana è “fuga”, quella di due milioni di persone che hanno lasciato il Sud dell’Italia tra il 2002 e il 2017. Moltissimi sono giovani, tanti laureati. In 15 anni abbiamo perso praticamente una città delle dimensioni di Napoli. Molti sono andati al Nord e altri invece si sono trasferiti all’estero.

L’anticipazione del Rapporto Svimez, che sarà ufficialmente presentato in autunno, lancia questo allarme: «… l’emergenza emigrazione del Sud determina una perdita di popolazione, soprattutto giovanile e qualificata, solo parzialmente  compensata  dai flussi di immigrati, modesti nel numero e caratterizzati da basse competenze», gli esperti della Svimez avvertono: «Questa dinamica  determina,  soprattutto per il Mezzogiorno, una prospettiva demografica assai preoccupante di spopolamento, che riguarda in particolare i piccoli centri sotto i 5 mila abitanti».

Riducendo lo zoom, quindi ampliando la vista sullo scenario nazionale complessivo, si osserva però un doppio divario: nel 2018 il Sud cresce meno del Centro Nord e, nello stesso periodo, l’Italia rallenta vistosamente rispetto all’Unione Europea. Il presidente della Svimez, Adriano Giannola, parla di «ultima spiaggia non solo per il Sud, ma per l’intero Paese». E il progetto di autonomia differenziata, evidenzia l’economista, «tende a consolidare la situazione di indebito privilegio nella distribuzione delle risorse, che si manifesta in diritti di cittadinanza estremamente divaricati fra Nord e Sud, in modo non costituzionalmente corretto.

Questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di 50 piani. Mano a mano che cadendo passa da un piano all’altro, il tizio per farsi coraggio si ripete: “Fino a qui, tutto bene. Fino a qui, tutto bene. Fino a qui, tutto bene.” Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio.”[1]

Come atterreremo, cari italiani?

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[1] Citazione dal film L’odio

Rassegna Stampa 29 luglio 2019

Hanno tutti ragione, come diceva il titolo di un libro di Paolo Sorrentino.

Ha ragione il Fondo Monetario Internazionale che ha riconosciuto la necessità -a livello internazionale – di ridurre le previsioni di crescita, a fronte di criticità globali come l’impatto economico dei rischi ambientali, le tensioni sul commercio e il rischio geopolitico.

Anche se l’Eurozona tiene, l’Italia rimane ferma, con tutte le sue incertezze sui conti pubblici e con gli effetti che questo genera sui consumi e sugli investimenti.

Ha ragione anche l’analisi fatta dal Rapporto I.T.A.L.I.A di Symbola, dal quale emerge un’Italia migliore delle sue stesse aspettative. Eclatante il dato che mette l’Italia tra i primi 10 Paesi al mondo per investimenti in ricerca e sviluppo e, a fronte di questo, il fatto che solo il 13% degli italiani ne sia consapevole e addirittura quasi uno su due (45%) la ritiene una notizia poco attendibile! Ma non solo: con il 76,9% l’Italia è il Paese europeo con la più altra percentuale di riciclo sulla totalità dei rifiuti; più del doppio della media comunitaria (36%). E siamo anche primi tra i grandi Paesi europei per caso di circolarità dell’economia. Sono le imprese coesive (quelle che curano le relazioni con i propri lavoratori e con i soggetti che fanno parte del loro ecosistema) ad avere i risultati migliori sia come performance economiche che occupazionali.

Eppure ha ragione anche chi, come Alessandro Rosina, punta i riflettori su un’Italia che non considera uno dei suoi beni principali: i giovani. Sono tre i fenomeni messi in evidenza da Rosina: l’Italia -più degli altri Paesi europei- ha molti early leavers, persone tra i 18 e 24 anni che non hanno completato la scuola secondaria superiore; l’Italia  detiene il record europeo di NEET (giovani non inseriti nel mondo del lavoro e nemmeno in attività scolastiche o formative) e esportiamo i nostri high skilled (420 mila negli ultimi 10 anni), senza avere la capacità di attrarne dagli altri Paesi (abbiamo saldi negativi in tutte le regioni).

Il nostro è un Paese che non riesce a valorizzare le lauree e i dottorati. Viene da pensare che dietro a tutta questa ragione alcuni torti, da qualche parte, ci devono pur essere. Idee?

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Rassegna Stampa 22 Luglio 2019

Mentre in Italia continuiamo a provarci (Confindustria chiede più coraggio al Governo su Industria 4.0, si arresta nell’ultimo trimestre la nascita di imprese al Sud, si aprono nuove occasioni professionali per figure che vanno rapidamente formate, si preparano nuovi investimenti per le Pmi,…) sul cruscotto dell’economia europea si è acceso una spia rossa. E’ quella del “motore d’Europa”, la Germania, che mostra vari segnali di crisi.

A partire dall’inizio dell’anno, e ancora nel mese di luglio, gli umori delle imprese tedesche peggiorano e l’indice di fiducia, lo Zew (che si elabora sulla base delle risposte di 350 protagonisti  dell’economia), continua a peggiorare. Un mese fa Dieter Kempf, capo della Bdi (la  lobby industriale più potente), ha lanciato l’accusa al governo di non aver messo il paese in condizioni di affrontare  la sfida  digitale  (“solo un  miliardo per  l’intelligenza  artificiale” )  e  di  non aver effettuato gli investimenti necessari per  ammodernare le infrastrutture. Angela  Merkel gli  ha subito replicato che la responsabilità è degli industriali dell’auto che hanno tradito la fiducia dei tedeschi con il dieselgate.

In effetti l’industria dell’auto tedesca stenta a recuperare la leadership  perduta ma soffrono anche i colossi della chimica (come Basf) e quelli del software come Sap. C’è un segnale importante, poi, che non ha bisogno di commenti: la Deutsche Bank si è ritirata dalla City londinese e dal mercato  americano (oggi la  banca vale  in Borsa  un terzo  dell’italiana  Banca Intesa  Sanpaolo  che non  è globalizzata).

Di sicuro il modello tedesco è ancora solido e può contare sul suo sistema diffuso e forte di medie imprese, ma anche la Germania deve fare i conti con la contemporaneità se non vuole perdere i pilastri sui quali si fonda la sua primazia: il Mittelstand (il sistema delle imprese), la  coesione  sociale e il solido welfare. Secondo Marcel Fratzscher, direttore del  think tank Diw  e docente all’università  Humboldt  di  Berlino, questo patrimonio è oggi a rischio per due  pericolose  illusioni politiche.  “Primo – scrive Fratzscher sul Financial  Times –l’assurda convinzione che non debba essere la Germania a cambiare, bensì gli  altri paesi europei che avrebbero bisogno di imitare il suo esempio  virtuoso”. Questa idea, infatti, ha impedito  di  allargare i  benefici  del boom portando ad un  surplus  della  bilancia  commerciale, con vari effetti negativi: l’espansione degli investimenti esteri a scapito di quelli sul  mercato  interno,  salvo  i  lavori  meno tutelati, causa di  profondo disagio. “Secondo –continua il professore –l’illusione che  la Germania  non abbia  bisogno dell’Europa e che l’Unione europea dipenda al  contrario dalla  nostra benevolenza”. C’è da dire, forse, come disse quella volta Carmelo Bene a Paolini: “non è il teatro che ha bisogno di voi; siete voi che avete bisogno del teatro”.

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Rassegna Stampa 8 luglio 2019

Notizie della settimana dal 1 all’8 luglio

Plastic – free è ormai il grido di battaglia delle imprese più innovative che si stanno lanciando nell’utilizzo di nuovi materiali e nella riduzione dell’uso e del consumo di plastica.

Vale per le multinazionali ma anche per le PMI che stanno cercando di anticipare la direttiva europea che entrerà in vigore nel 2021 modificando il packaging e coinvolgendo i lavoratori nelle pratiche virtuose.

Ed è anche un modo per andare incontro ai clienti se è vero, come ci dice un sondaggio di Ipsos, che un italiano su tre chiede che siano le aziende a offrire risposte concrete per la riduzione della plastica.

Infine le imprese sanno che questo grido di battaglia è un modo per rafforzare, attraverso  un  messaggio  etico e green, la loro reputazione e quindi il loro brand.

Rispetto ai comportamenti dei consumatori emerge dal sondaggio di Ipsos che il 68% di italiani è disponibile a pagare di più un prodotto se proviene da politiche ambientali serie e rigorose, il 53% acquista prodotti realizzati con materiali riciclati, il 48% riutilizza articoli monouso e il 41% ha intenzione di smettere di acquistare prodotti con imballaggi non riciclabili.

Di recente è stata costituita l’Alliance to End Plastic Waste, un’organizzazione senza scopo di lucro composta da quasi 30 aziende che hanno impegnato più di $ 1 miliardo, con l’obiettivo di investire $ 1,5 miliardi nei prossimi 5 anni per aiutare a eliminare i rifiuti plastici nell’ambiente.

Per citare il claim di una famosa azienda energetica: le imprese + i consumatori sono meglio dell’impresa (da sola). Che sia arrivato il tempo della vera Rivoluzione Green?

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Rassegna Stampa 1 luglio 2019

Notizie della settimana dal 25 giugno al 1 luglio

Qualche anno fa un Ministro italiano disse: “Con la cultura non si mangia”. E invece, udite udite, nel 2018 il sistema produttivo culturale e creativo in Italia ha sfiorato i 96miliardi di euro, il 6,1% del Pil, crescendo del 2,9% in termini di valore aggiunto e dell’1,5% per occupati, a fronte di dati dell’economia nazionale fermi rispettivamente a +1,8% e +0,9%.

Cioè, secondo il rapporto “Io sono cultura” di Fondazione Symbola e da Unioncamere, è un settore che genera più valore aggiunto della sanità e ha all’incirca gli  stessi impiegati del settore delle  costruzioni. La cosa interessante è che le imprese della cultura estendono il loro valore oltre il proprio perimetro. E’ stato stimato, infatti, che per ogni euro di valore aggiunto prodotto dal settore, nel resto dell’economia se ne attivano mediamente 1,77. Un effetto moltiplicatore che dà vita a una “filiera” culturale da 265,4miliardi, in lieve aumento rispetto al 2017.

Ma non è tutto: la scorsa settimana l’industria creativa si è presentata anche nel suo lato più innovativo dando l’occasione a varie startup ad alto profilo tecnologico – selezionate da una giuria internazionale presieduta da Bernd Fesel (European Creative Business Network) di farsi conoscere.

Anche i dati europei sono molto interessanti: con più di 12 milioni di addetti nella Unione Europa ( 2 volte e mezzo di più dell’automotive e 5 volte di più dell’industria chimica), l’industria culturale e creativa contribuisce per il 5,3% al valore aggiunto e per il 4% al prodotto interno lordo europeo.

Ugo Bacchella, presidente di Fondazione Fitzcarraldo, ha precisato che “la cultura è diventata un asset strategico e rientra a pieno titolo nelle politiche di sviluppo economico”,  “Il punto di svolta è  stata l’Agenda europea per la cultura” ha spiegato spiega Pier Luigi Sacco, docente allo Iulm di Milano e advisor Commissario Ue alla cultura “dove di fatto la cultura viene valutata in relazione alla capacità documentata di generare impatti positivi su aree come la salute, la coesione sociale e il rapporto con l’innovazione aprendo così a tutto l’orizzonte delle startup innovative e della social innovation”.

Forse il sistema economico è ancora sulla scia del nostro citato ex Ministro; va registrato, infatti, che gli investitori sono ancora pochi, attratti soprattutto dalle startup culturali che fanno leva sul digitale mentre complessivamente le banche non hanno le competenze per cogliere le specificità dell’industria creativa e culturale. E’ allo studio, comunque, uno strumento che potrebbe favorire l’incontro tra banche e industria creativa.

Servono altre prove per crederci?

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Quanto sei digitale